Il mercato dell'aura o l'aura del mercato?


Più d'uno, nel secolo appena terminato, ha fatto notare che il nostro sarebbe il tempo del disastro, della perdita di tutti gli astri, di tutti i punti di riferimento, di tutte le misure possibili. Esemplare, in questa direzione, è il libro da poco uscito di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano dedicato all'arte contemporanea (Mercanti d'aura, il Mulino, pp. 328, 18 euro). Il libro, secondo le intenzioni degli autori, si proporrebbe di condurre a una comprensione più consapevole lo sperduto spettatore delle manifestazioni di arte contemporanea, il quale si troverebbe sempre in bilico, nella sua fruizione, tra l'incomprensibilità di una produzione talmente multiforme da lasciare, per l'appunto, senza una misura e il rischio di un “catonismo” moralista e nostalgico incapace di comprendere le trasformazioni del mondo contemporaneo. In un certo senso, Dal Lago e Giordano, prendendo atto del disastro, cercano di darne una spiegazione, attingendo a un sapere eclettico benché sempre saldamente ancorato alla sociologia. La tesi di fondo è che l'arte sarebbe oggi profondamente varia, non riconducibile quindi a nessuna unità, a nessuna idea di Arte, ed anzi quasi indiscernibile dal mercato, dai grandi processi di comunicazione e di marketing industrial-culturale. Le ragioni di questa dinamica evolutiva del processo artistico sarebbero da ricercare nei mutamenti della società. L'arte, infatti, per i due autori, non può essere altro che specchio della società e riprodurne i medesimi processi. L'arte è, in fondo, un prodotto come tutti gli altri e in quanto tale va studiato e interpretato, nonché fruito. E' a partire da queste premesse che gli autori sostengono che negli ultimi anni non vi sia stata la temuta perdita dell'aura, teorizzata da Benjamin, ma sia semplicemente avvenuta una sua commercializzazione. L'aura dell'arte di oggi sarebbe quindi un'aura che segue le regole del mercato, della promozione, dell'autopromozione, ecc. Ora, mi pare che su queste conclusioni si apra il baratro di un pensiero tipico degli ultimi vent'anni secondo il quale il compito del lavoro intellettuale, come quello dell'arte, consisterebbe nel “riflettere” le forme di produzione vigenti (nell'attesa che esse cambino: come, sotto quali spinte, con l'ausilio di quali pensieri, però, non è dato sapere...). Ogni altro atteggiamento di insofferenza all'esistente o di fedeltà a una tradizione vengono immediatamente tacciati di “catonismo”, cioè di spirito reazionario e nostalgico. C'è un che di paradossale e terrificante in una tale postura intellettuale. E, cioè, la sistematica incapacità di pensare che il nuovo non sia necessariamente l'adeguarsi o il corrispondere all'oggi, così come il contemporaneo non necessariamente combaci con l'estemporaneo. Credere che un artista, oggi, per essere davvero contemporaneo, debba riprodurre, magari in modo ironico-ludico-impegnato, i processi di produzione della società globalizzata, mi pare un enorme errore interpretativo. Così come mi pare una profonda incomprensione della prassi artistica il pensare che essa sia sostanzialmente una riproduzione constativa del reale e non piuttosto il tentativo di creare immagini, suoni e pensieri performativi, capaci cioè di mostrare possibilità inattuali del presente e incompatibili con esso. Chi ha deciso che l'arte debba “rappresentare” lo status quo? Chi e in nome di cosa ha sentenziato la condanna a morte di una tradizione millenaria, fatta per lo più di profonde anacronie, di rotture, contrapposizioni, slanci in avanti e indietro rispetto al tempo in cui, di volta in volta, si è trovata ad operare? Quando in realtà l'arte ha sempre trovato la propria contemporaneità più profonda non tanto nel porsi all'unisono del proprio tempo, quanto piuttosto mettendosi in risonanza con una pluralità di tempi. I grandi artisti non hanno praticamente mai avuto il problema di sentirsi reazionari o rivoluzionari: semplicemente viaggiavano nel tempo, stando con il tempo e aspirando ad un arte per il tempo. E, ancora, perché non sarebbe corretto, criticamente corretto, piuttosto che cercare di catalogare l'esistente, in fondo trovandogli una giustificazione e una implicita legittimazione, sostenere che oggi, come sempre nella storia, convivono pratiche che, in un ambiguo sistema di omonimia, condividono lo stesso nome pur essendo diametralmente opposte? Perché non dire chiaramente che la pratica di Cattelan (che, con grande maestria, riproduce le tecniche della comunicazione, del marketing, ecc.) non ha nulla a che spartire, ad esempio, con il lavoro che si pone nel solco e nell'eredità della tradizione dell'arte di Parmiggiani? Perché non dire che la prima non è arte, ma al massimo una sua mutazione genetica, e la seconda sì? Se dietro a queste parole si nasconda del “catonismo”, io non so. Credo, comunque, che esse sollevino delle questioni che gli artisti e i critici dovrebbero porsi proprio nel tempo del disastro. E credo, anche, che valga la pena correre il rischio di essere tacciati di novelli Catone se l'alternativa è arrendersi al fatto che l'arte non abbia più altro da fare che riprodurre gli odierni processi di produzione.
Il timore, in fondo, è che gli autori di questo libro, come tanti altri (con minor rigore e onestà intellettuale), più che parlarci del mercato dell'aura facciano una, più o meno involontaria, apologia dell'aura del mercato – con buona pace dell'arte e degli artisti che per secoli si sono mossi, pagandone talora prezzi altissimi, ai suoi margini.